Quotes

S. Esenin – Autunno

Piano in una forra di ginepri contro un dirupo
L’autunno – fulva giumenta – si pettina la criniera

Sul tappeto fluviale delle rive
Si sente l’azzurro stridio dei suoi ferri.

Il vento-eremita con cauto passo
Calpesta il fogliame sulle sporgenze delle strade

E bacia un cespuglio di sorbo
Le rosse ulcere di un invisibile Cristo.

SERGEJ ESENIN – POESIE E POEMETTI [a cura di E. Bazzarelli]


Quiet in a juniper gorge against a cliff
Autumn – fawn mare – combs her mane

On the river carpet of the banks
You can hear the blue screech of his irons.

The wind-hermit with cautious step
Tramples the foliage on the road ledges

And kiss a rowan bush
The red ulcers of an invisible Christ.

N. Hikmet – Berlino, 1961

Nelle mie braccia tutta nuda
la città la sera e tu
il tuo chiarore l’odore dei tuoi capelli
si riflettono sul mio viso.

Di chi è questo cuore che batte
più forte delle voci e dell’ansito?
è tuo è della città è della notte
o forse è il mio cuore che batte forte?

Dove finisce la notte
dove comincia la città?
dove finisce la città dove cominci tu?
dove comincio e finisco io stesso?

N. HIKMET – POESIE D’AMORE, IN ESILIO, [Traduzione di Joyce Lussu]


In my arms all naked
the city the night and you
your glow smell of your hair
reflected on my face.

Whose is this heart that beats
stronger than the voices and anxiety?
Is it yours of the city of the night
or maybe is it my heart beating so hard?

Where does the night end
where the city start?
where does the city end where you start?
Where do I start and finish it myself?

[This is just a translation attempt]

N. Hikmet – 1948

I giorni son sempre più brevi
le piogge cominceranno.
La mia porta, spalancata, ti ha atteso.
Perché hai tardato tanto?

Sul mio tavolo, dei peperoni verdi, del sale, del pane.
Il vino che avevo conservato nella brocca
l’ho bevuto a metà, da solo, aspettando.
Perché hai tardato tanto?

Ma ecco sui rami, maturi, profondi
dei frutti carichi di miele.
Stavano per cadere senz’essere colti
se tu avessi tardato ancora un poco.

N. HIKMET – POESIE D’AMORE, LETTERE DAL CARCERE A MUNEVVE, Prigione di Bursa (Anatolia) [Traduzione di Joyce Lussu]


The days are gradually getting shorter,
the rains are about to start.
My door waited wide open for you.
      Why were you so late?

Bread, salt, a green pepper on my table.
Wating for you, I drank on my own
half the wine I kept for you in my jug.
     Why were you so late?

But look, the honeyed fruit,
ripe on the branch, remains alive.
If you had been any later
it would have dropped unplucked to the ground.

[Translated by Richard McKane]

S. Esenin – 1918

Oggi il mio amore non è più lo stesso.
Ah, lo so, che tu soffri, soffri
Perché, la ramazza della luna
Non ha rovesciato pozzanghere di versi.

Sei triste e ti rallegri della stella,
Che ti cade sulle sopracciglia,
Tu hai cantato il cuore all’izba,
Ma non hai costruito una casa nel cuore.

E quello, che tu aspettavi nella notte
Se ne è andato, come prima, dal tetto.
O amico, per chi hai indorato
Le tue chiavi con parole di canto?

Non ti è dato cantare il sole,
Né vedere dalla finestra il paradiso.
Come un mulino che, agitando le ali,
Dalla terra non riesce a staccarsi.

SERGEJ ESENIN – POESIE E POEMETTI [a cura di E. Bazzarelli]


Now my love is not the same.
Ah, I know, you grieve, you
Grieve that pools of words
Have not spilled from the moon’s broom.

Mourning and rejoicing at the star
Which settles on your brows
You sang out your heart to the izba
But failed to build a home in your heart.

And what you hoped for every night
Has passed your roof by once again.
Dear friend, for whom then did you gild
Your springs with singing speech?

You will not sing about the sun
Nor glimpse, from your window, paradise
Just as the windmill, flapping its wing
Cannot fly up from the earth.

[Translated by Tim Jones ]


S. Esenin – 1914

Paese tu mio abbandonato,
Paese tu mio, deserto,
Fienagione incompiuta,
Bosco e monastero.

Le izbe ingobbite,
E sono cinque in tutto.
I loro tetti schiumeggiano
Nella fascina del tramonto.

Sotto la paglia-cornice
I lisci legni delle capriate,
Il vento la muffa azzurrina
Ha bagnato di sole.

Senza sbagliare bussano alla finestra
I corvi con l’ala,
Come una bufera, il ciliegio selvatico
Agita la sua manica.

Non sono forse una favola del canneto
La tua vita e la tua storia,
Che verso sera al viandante
Ha sussurrato la stipa?

SERGEJ ESENIN – POESIE E POEMETTI [a cura di E. Bazzarelli]


Land of mine in dire neglect,
Country run to waste,
Fields of hay unmown as yet,
Monastery, estate.

Every cottage is askew,
Five there are in all.
In the setting sun their roofs
Foam as shadows fall.

Under shirt-thatch coverings
Roof-ribs соте to view,
Wind-blown specks of sunlight tinge
Mould of dove-grey hue.

Hitting panes unerringly
Crows past windows weave,
Like а snowstorm, the bird cherry
Waves а blossom-sleeve.

Wasn’t your life а fairytale,
А legend of the past
То а late wayfarer told
Ву the feather-grass?

[Translated by Peter Tempest]

I love “Like а snowstorm, the bird cherry /Waves а blossom-sleeve.”

N. Hikmet – 1948

I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
che tu venga all’ospedale o in prigione
nei tuoi occhi porti sempre il sole.

I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
questa fine di maggio, dalle parti d’Antalya,
sono così, le spighe, di primo mattino;

i tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
quante volte hanno pianto davanti a me
son rimasti tutti nudi, i tuoi occhi,
nudi e immensi come gli occhi di un bimbo
ma non un giorno han perso il loro sole;

i tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
che s’illanguidiscano un poco, i tuoi occhi
gioiosi, immensamente intelligenti, perfetti:
allora saprò far echeggiare il mondo
del mio amore.

I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
così sono d’autunno i castagneti di Bursa
le foglie dopo la pioggia
e in ogni stagione e ad ogni ora, Istanbul.

I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
verrà giorno, mia rosa, verrà giorno
che gli uomini si guarderanno l’un l’altro fraternamente
con i tuoi occhi, amor mio,
si guarderanno con i tuoi occhi.

N. HIKMET – POESIE D’AMORE, LETTERE DAL CARCERE A MUNEVVE, Prigione di Bursa (Anatolia) [Traduzione di Joyce Lussu]


Your eyes, your eyes, your eyes
whether you come to the hospital or to prison
your eyes, your eyes, your eyes always carry the sun,
so are the ears of wheat at dawn
somewhere in Antalya, late in May.

Your eyes your eyes your eyes
How many times have they cried in front of me –
they were bare, your eyes,
bare and vast like those of a child
but not for a day have they lost their sun.

Your eyes your eyes your eyes
should they get just a little languid, your
joyful, immensely intelligent, perfect eyes:
I’ll make the world
resound with my love.

Your eyes your eyes your eyes
so are in Autumn the chestnut groves of Bursa,
the leaves after the rain
and in every season and at every hour, Istanbul

Your eyes your eyes your eyes
the day will come, my love, the day will come
that men will look at each other fraternally
with your eyes, my love
they will look with your eyes.

R. M. Rilke – Decima Elegia

Ch’io un giorno, uscito da intuizioni arrovellate
possa mandar su, agli angeli concordi, il mio canto di giubilo e di gloria.
Che i martelli del cuore battuti per squillare
non fallino su corde lente, dubitanti,
o che si spezzino. Che il mio volto bagnato di lacrime
brilli, e il pianto che non si vede
fiorisca. Oh, come mi sarete care, allora, notti dolorose.
Ch’io non v’abbia accolto più genuflesso,
sorelle inconsolabili,
che nei vostri capelli sciolti non mi sia abbandonato
più sciolto. Noi, che sprechiamo i dolori.
Come li affrettiamo mentre essi tristi, durano,
a vedere se finiscono, forse. E sono invece
la fronda del nostro inverno, il nostro sempreverde cupo
uno dei tempi dell’anno segreto, ma non solo
tempo, – son luogo, sede, campo, suolo, dimora.

Certo, ahimè, come sono estranee le vie della città –
tormento,
dove nel silenzio falso fatto di frastuono
forte, fa pompa di sé, quella colata dallo stampo del vuoto,
quel chiasso dorato che è il monumento esplodente.
[…]

Ma se i morti infinitamente dovessero mai destare un
simbolo in noi,
vedi che forse indicherebbero i penduli amenti
dei nocciòli spogli, oppure
la pioggia che cade su terra scura a primavera.

E noi che pensiamo la felicità
come un’ascesa, ne avremmo l’emozione
quasi sconcertante
di quando cosa ch’è felice, cade.

R. M. RILKE – ELEGIE DUINESI [Traduzione di Enrico e Igea De Portu]


Letta magnificamente da Domenico Pelini:

R. M. Rilke – Ottava Elegia

[…]
Quello che c’è fuori, lo sappiamo soltanto
dal viso animale; perché noi, un tenero bambino
già lo si volge, lo si costringe a riguardare indietro e
vedere
figurazioni soltanto e non l’aperto ch’è sì profondo
nel volto delle bestie. Libero da morte.
Questa la vediamo noi soli; l’animale libero
ha sempre il suo tramonto dietro a sé.
E dinnanzi ha Iddio; e quando va, va
in eterno come vanno le fonti.
Noi non abbiamo mai dinanzi a noi, neanche per un giorno,
lo spazio puro dove sbocciano
i fiori a non finire. Sempre c’è mondo
e mai quel nessundove senza negazioni
puro, non sorvegliato, che si respira,
si sa infinito e non si brama. Uno, da bimbo
vi si perde in silenzio e ne è
scosso. O un altro muore e lo diventa.
Perché quando è vicina la morte non si vede
e guardiam fissi fuori, forse con grande sguardo degli animali.
Gli amanti, se non ci fosse l’altro, che
preclude la vista, a quello spazio puro son vicini e stupiscono …
come per svista è stato aperto loro
dietro l’altro … ma oltre l’altro
nessuno può andare, ed ecco a tutt’e due tornare mondo.
Sempre rivolti al creato, in essi vediamo
soltanto il rispecchio del Libero
da noi stessi oscurato. O che una bestia
muta, alzi gli occhi e guardi tranquilla attraverso di noi.
Ecco quel che si chiama Destino: essere di rimpetto,
e null’altro, e sempre di rimpetto.
[…]

R. M. RILKE – ELEGIE DUINESI [Traduzione di Enrico e Igea De Portu]


Letta magnificamente da Domenico Pelini:

P. A. Florenskij – 28 Luglio & 22 Novembre 1936

[…] credo che il passato non debba essere alieno neanche a te, anche se cerchi di dimenticarlo. Non riesco a capire questo atteggiamento. Se la vita in generale ha senso e valore, dimenticare il passato è ingratitudine e insensatezza, poiché tutto diventa passato, e allora tutta la vita, tirate le somme, deve rivelarsi uno zero. Il ricordo del passato è insieme un dovere e il contenuto della vita, e non è possibile apprezzare il presente e goderne, se esso non è radicato nel passato. Infine la vita, concludendosi a volte con la vecchiaia ritorna all’infanzia: questa è la legge, questa è la forma della vita completa.

[…] Mi ricordo molto chiaramente di quest’episodio, come se fosse accaduto ieri e non più di mezzo secolo fa. Il passato non è passato, esso si conserva eternamente da qualche parte, in qualche modo e continua ad essere reale e ad agire. Avverto questo a ogni passo, i ricordi stanno di fronte ai miei occhi, come dei quadri chiari e distinti. I confini si confondono: dov’è di preciso mio padre, dove sono io, dove siete voi tutti, dov’è il piccolo. I confini della personalità solo nei libri appaiono distinti, ma in realtà tutto è intrecciato in maniera talmente fitta che la distinzione è solo approssimativa, mentre c’è un continuo passaggio da una parte all’altra dell’interno. E anche io ora, sebbene sia lontano da voi, sono con voi, sempre.


[…] …

P. A. Florenskij – 5 Luglio 1936

[…] Io non amo le estensioni sconfinate e senza forma; tendo a ciò che è sommo, non a ciò che è esteso. […] Ricordo spesso la morte di papà. Egli faceva dei sogni (o forse erano visioni) di viaggi, o piuttosto di migrazioni di nomadi negli spazi sconfinati dell’Asia. E il pensiero dell’abbondanza mi terrorizzava. “Normalmente si pensa che l’umanità morirà per la carenza di qualcosa. – diceva – Per me invece è chiaro che morirà per l’abbondanza”.
Anche a me il molto ha sempre fatto paura, fin dall’infanzia, perché ti sembra che irrompa il caos senza forma che tu non sei in grado di governare e che non puoi far tuo. Dove non c’è una compostezza, non ci può essere neanche comprensione, ma la compostezza comporta un limite. […] Se non ci sono limiti, non è possibile neanche la serenità. La capacità di limitare se stessi è il pegno della maestria (Goethe). Per tutta la vita ho lottato in me stesso con l’illimitatezza e, a quanto pare, senza successo, in ciò sta la mia debolezza.

Pavel a. florenskij – lettere dal gulag 1933-1937 (Traduzione di g. guaita & l. charitonov)


[…] I do not love boundless space and without shape; I aim at what is highest, not at what is wide. […] I often remember my father death. He had dreams (or maybe they were visions) of travels, or rather migrations of nomads towards Asia boundless spaces. And the thought of abundance scared me. “We usually think humanity will die do to the lack of something. – he told – For me, instead, it is clear it will die due to wealth”.
The “much” always scared me too, since my childhood, because you have the impression the shapeless chaos will take over. The chaos that you can no control and you cannot make yours. Where there is no composition, there can no be even understanding, but composition need a limit. If there is no limits, there is no peace. The ability of limit ourselves is the pledge of mastery (Goethe). For my whole life, I have struggled in myself against limitlessness, and apparently without any success – therein lies my weakness.