Ch’io un giorno, uscito da intuizioni arrovellate possa mandar su, agli angeli concordi, il mio canto di giubilo e di gloria. Che i martelli del cuore battuti per squillare non fallino su corde lente, dubitanti, o che si spezzino. Che il mio volto bagnato di lacrime brilli, e il pianto che non si vede fiorisca. Oh, come mi sarete care, allora, notti dolorose. Ch’io non v’abbia accolto più genuflesso, sorelle inconsolabili, che nei vostri capelli sciolti non mi sia abbandonato più sciolto. Noi, che sprechiamo i dolori. Come li affrettiamo mentre essi tristi, durano, a vedere se finiscono, forse. E sono invece la fronda del nostro inverno, il nostro sempreverde cupo uno dei tempi dell’anno segreto, ma non solo tempo, – son luogo, sede, campo, suolo, dimora.
Certo, ahimè, come sono estranee le vie della città – tormento, dove nel silenzio falso fatto di frastuono forte, fa pompa di sé, quella colata dallo stampo del vuoto, quel chiasso dorato che è il monumento esplodente. […]
Ma se i morti infinitamente dovessero mai destare un simbolo in noi, vedi che forse indicherebbero i penduli amenti dei nocciòli spogli, oppure la pioggia che cade su terra scura a primavera.
E noi che pensiamo la felicità come un’ascesa, ne avremmo l’emozione quasi sconcertante di quando cosa ch’è felice, cade.
R. M. RILKE – ELEGIE DUINESI [Traduzione di Enrico e Igea De Portu]
[…] Quello che c’è fuori, lo sappiamo soltanto dal viso animale; perché noi, un tenero bambino già lo si volge, lo si costringe a riguardare indietro e vedere figurazioni soltanto e non l’aperto ch’è sì profondo nel volto delle bestie. Libero da morte. Questa la vediamo noi soli; l’animale libero ha sempre il suo tramonto dietro a sé. E dinnanzi ha Iddio; e quando va, va in eterno come vanno le fonti. Noi non abbiamo mai dinanzi a noi, neanche per un giorno, lo spazio puro dove sbocciano i fiori a non finire. Sempre c’è mondo e mai quel nessundove senza negazioni puro, non sorvegliato, che si respira, si sa infinito e non si brama. Uno, da bimbo vi si perde in silenzio e ne è scosso. O un altro muore e lo diventa. Perché quando è vicina la morte non si vede e guardiam fissi fuori, forse con grande sguardo degli animali. Gli amanti, se non ci fosse l’altro, che preclude la vista, a quello spazio puro son vicini e stupiscono … come per svista è stato aperto loro dietro l’altro … ma oltre l’altro nessuno può andare, ed ecco a tutt’e due tornare mondo. Sempre rivolti al creato, in essi vediamo soltanto il rispecchio del Libero da noi stessi oscurato. O che una bestia muta, alzi gli occhi e guardi tranquilla attraverso di noi. Ecco quel che si chiama Destino: essere di rimpetto, e null’altro, e sempre di rimpetto. […]
R. M. RILKE – ELEGIE DUINESI [Traduzione di Enrico e Igea De Portu]