Ch’io un giorno, uscito da intuizioni arrovellate possa mandar su, agli angeli concordi, il mio canto di giubilo e di gloria. Che i martelli del cuore battuti per squillare non fallino su corde lente, dubitanti, o che si spezzino. Che il mio volto bagnato di lacrime brilli, e il pianto che non si vede fiorisca. Oh, come mi sarete care, allora, notti dolorose. Ch’io non v’abbia accolto più genuflesso, sorelle inconsolabili, che nei vostri capelli sciolti non mi sia abbandonato più sciolto. Noi, che sprechiamo i dolori. Come li affrettiamo mentre essi tristi, durano, a vedere se finiscono, forse. E sono invece la fronda del nostro inverno, il nostro sempreverde cupo uno dei tempi dell’anno segreto, ma non solo tempo, – son luogo, sede, campo, suolo, dimora.
Certo, ahimè, come sono estranee le vie della città – tormento, dove nel silenzio falso fatto di frastuono forte, fa pompa di sé, quella colata dallo stampo del vuoto, quel chiasso dorato che è il monumento esplodente. […]
Ma se i morti infinitamente dovessero mai destare un simbolo in noi, vedi che forse indicherebbero i penduli amenti dei nocciòli spogli, oppure la pioggia che cade su terra scura a primavera.
E noi che pensiamo la felicità come un’ascesa, ne avremmo l’emozione quasi sconcertante di quando cosa ch’è felice, cade.
R. M. RILKE – ELEGIE DUINESI [Traduzione di Enrico e Igea De Portu]